La marcia trionfale del petrolio “made in Usa” si sta fermando. A luglio la produzione di greggio degli Stati Uniti è diminuita per il terzo mese consecutivo, ripiegando sotto la soglia psicologica dei 12 milioni di barili al giorno. L’ultimo dato ha un valore relativo, dato che il crollo dell’output dipende in gran parte dall’emergenza per l’uragano Berry. Ma i segnali della crisi dello shale oil sono ormai numerosi ed evidenti. Il numero delle trivelle in funzione si è ridotto del 20% in dieci mesi, segno che la produzione diminuirà ancora nei prossimi mesi. Tra agosto e settembre, inoltre, sono stati fermati ben 80 impianti di perforazione. In parte gli operatori soffrono per il crollo del prezzo del gas negli Usa, ma soprattutto c’è la scarsità di finanziamenti da un lato e l’emergere di problemi geologici dall’altro: la produttività delle aree di shale è cresciuta per anni, grazie all’impiego di tecniche sempre più sofisticate, ma il progresso sembra ormai essersi fermato. La produttività nei primi 90 giorni di attività è addirittura diminuita del 2% rispetto all’anno scorso e nel bacino del Permian il calo è del 10%, osserva un report di Raymond James, che attribuisce il fenomeno al deterioramento delle formazioni rocciose, in parte derivato dallo sfruttamento intensivo degli anni passati. A fermare il progresso tecnologico potrebbe aver contribuito anche la necessità di risparmiare. Gli investitori hanno ormai perso fiducia e il mercato dei capitali si è chiuso.
Fonte: Il Sole 24 Ore – Sissi Bellomo (pag. 19)
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